by Raffaele K. Salinari
Antico sogno degli Alchimisti è la comprensione dei misteri della creazione attraverso la manipolazione della materia. Per accedere a questo arcano essi hanno da sempre capito come il corpo mistico che va lentamente trasformato nel fuoco del crogiolo ermetico sia la loro stessa anima che, alla fine del lungo percorso, compiuta la Grande Opera, si purifica di tutte le grossolane passioni che la incatenano alle contingenze per ascendere libera verso l’Essere del Vero.
Ma questo volo verso l’alto deve avere come supporto un suo analogo in basso, un alias, minerale o vegetale, che nel processo alchemico rappresenti il corpo stesso dell’operatore. La materia operata opera così l’operatore costruendo una relazione intima e segreta tra la sua trasformazione in purezza e l’animica ascesa verso l’Origine.
E dunque il segreto della creazione altro non è che questa capacità di trarre dai corpi la loro più pura essenza, quella qualità che li rende tutti giusti e perfetti perché fatti della stessa materia con cui sono fatti i sogni come giustamente intuisce il grande mago shakespeariano. Il sogno allora è la matrice della realtà, il suo risvolto, il suo secreto, nel senso del semplice che ogni sostanza deve necessariamente secernere per essere.
Ecco che, di fronte ad un’opera di Daniela Gullotta, ci prende la sensazione, perturbante forse ma potente, di essere dinanzi al risvolto stesso della forma, architettonica o del corpo umano, disseccata e sublimata dalle sue pennellate sino a svelarne le trame combinatorie, così da far secernere alle architetture oramai in rovina, vestigia di se stesse, o ai volti fissati nella solennità di una esistenza oramai trascorsa, l’ultima stilla della loro unica ed irripetibile essenza materica.
È attraverso questa pratica estetica che i volti e i monumenti, le architetture ed i luoghi, ci mostrano il fitto intreccio di trama ed ordito che compongono infine la loro iconica bellezza. Veri e propri ri-tratti dunque, che rovesciano in una magistrale scelta di prospettive l’immagine sensibile sino a riportarne alla vista l’origine abissale, l’archetipo che si staglia nei secoli passando immutato attraverso ognuna di esse, la loro Pathosformel warburghiana. Per questo il colore non colore sembra quasi irradiarsi nuovamente dallo spazio della tela dopo essere stato assorbito nei meandri di una anatomia immaginale che ricorda l’essenziale purezza di una lastra radiologica.
Ecco che lo sguardo, in questi quadri, non può spingersi oltre: l’invisibile gli è già stato mostrato, come se le mele di Cézanne, secondo la nota espressione di Ernst Bloch, fossero cadute fuori dalla tela facendo esplodere il mondo. Perché è un mondo in perenne esplosione-implosione quello di Daniel Gullotta; ogni tratto è preda di un solve et coagula potenziale, che rende le geometrie così precise da non avere più confini: tutto sembra al tempo stesso risucchiato verso il punto di fuga e respinto verso lo sguardo dell’osservatore, attirato ipnoticamente in questo gioco di specchi.
Hypnos, specchio di Thanatos dunque: i ruderi sospesi nell’onirismo della pittura riverberano la loro bellezza originaria negli sguardi di chi cerca ciò che non c’è più in quello che c’è ancora. Ricreare la materia attraverso le sue immagini dunque, compito massimo e dovere dell’artista. Per lui il problema non è come i sensi possano percepire tutto questo, ma solo il portarlo a noi come indefinibile ed eterna possibilità. Questa è il secreto d’arte che ci distilla Daniela Gullotta.